giovedì 12 aprile 2012

Julien Langerdoff - le prince des ténèbres

Misty morning, clouds in the sky
Without warning, the wizard walks by
Casting his shadow, weaving his spell
Funny clothes, tinkling bell
Never talking
Just keeps walking
Spreading his magic


Potremmo immaginare la copertina dell'album, con le caratteristiche di una donna vestita come una strega in un paesaggio stregato psichedelico, catapultata in un rock and roll del male anni 70 firmato  "Black Sabbath". Radici nodose e foglie rosso sangue, finestre annerite, emozioni e film horror. La cosa più cool di "The Wizard (Il Mago)", è che la musica è pura malvagità, ma i testi sono un ritratto buffo di un mago che sta mettendo le vibrazioni positive. 


Evil power disappears
Demons worry when the wizard is near
He turns tears into joy
Everyone’s happy when the wizard walks by

Suppongo che questa idea romantica di arte che ci attrae è il mezzo magico per la liberazione dalle paure terrene. L'artista in quanto mago, un outsider di valore esoterico knowlege potrebbe effettivamente essere utile. Julien Langendorff lavora nel suo quasi-mistico modo di figurazione narrativa. Taglio ossessivo e delicato, incollare, disegno e pittura; risultato di immagini che sembrano essere catturati a metà animazione, galleggia e vola attraverso qualsiasi supporto che essi vengano applicati. Ci sono molte prove del tempo che passa, gesti ripetuti, i modelli creati e linee curate a guardare selvaggiamente. L'arte di Julien trasforma tutto questo in una visione personale con la sua poesia stregata. Mostri, sesso e morte, sembrano essere i temi principali. Ci viene ricordato che i simbolisti come Odilon Redon e Eduard Munch erano fan di Edgar Allen Poe. Scommetto che li avrebbero voluti un po troppo Sabbath. Naturalmente queste costellazioni ardenti e talismani sexy non vi trasformerà in un discepolo di Satana. Piuttosto si tratta di inviti a dolci intimità. Questi mostri sono persi sul fiume della vita con il resto di noi, e guardano fuori da questo mondo immaginato nel confronto o rassegnazione. Mi ricordo un ritratto di François Mitterrand, che Julien ha fatto per una rivista che non era tanto un ritratto, ma una somiglianza zombie molto divertente e precisa. Due teschi sorridenti sono collegati tra loro in amicizia o trasformazione, si vedono le braccia tese in tutto il mondo che vogliono mettersi in contatto, e i colori sono luminosi contro il nero dell'abisso. Recentemente nel movie/video co-diretto con Jason Glasser: "The Pillars of Fire", Julien vuole trasmetterci pace, la stessa pace che la donna pelosa troverà alla fine del suo percorso esistenziale, anche se questo significa trasformarsi in fuoco. Tutto ciò comunica e rassicura che ci sia almeno qualcosa da trovare nel buio dell'ignoto. Niente è solo noioso e veramente terribile.
Non c'è ragione di avere paura.




















giovedì 23 febbraio 2012

Adolf Dietrich - modestement, il peint

1900, cantone di Turgovia (Svizzera). Immaginate di essere in una stanza completamente rivestita di legno, una giornata di sole, un camino che vi regala tepore, spalancate le finestre, attivate il vostro bulbo oculare e vedrete davanti a voi fantastiche vedute: le colline del lago di Costanza, il giardino del vicino, gli animali della foresta, in particolare uccelli ma anche scoiattoli, cani, faine e puzzole, i ritratti e le immagini delle piccole scene di vita quotidiana del villaggio - come la fiera annuale, l'arrivo delle barche - ma anche amici, conoscenti e bambini di strada. In seguito però, vi renderete conto che queste vedute e questo anno non appartengono a noi ma alla vita di un pittore modesto dove la sua unica insegnate è proprio la Natura: "Adolf Dietrich". Per cinquant'anni Adolf ha messo al centro delle sue opere il microcosmo che gravitava attorno alla sua Stube. I suoi dipinti raccontano la natura e la vita quotidiana in modo quasi fiabesco, con un'esecuzione elementare e semplice, utilizzando colori brillanti e puri. Sempre ripreso con uno stile personale a metà strada tra naïf e realismo magico, il piccolo mondo di Dietrich e il circolo delle sue creature si può davvero racchiudere nella parola "Berlingen am Untersee" (Berlingen il sottomarino). Nonostante da ogni sua opera traspaia un profondo sentimento di unione con l'ambiente circostante, Adolf non dipingeva mai all'aperto: l'artista prendeva rapidi schizzi dal vero per lavorare poi ai dipinti a casa, seduto al tavolo da pranzo della sua Stube, affidandosi solo alla sua memoria e al quaderno di appunti, variando infatti spesso formati e dimensioni e combinando in un'unica opera vedute differenti. L'unica attrezzatura erano la carta e la matita, e più tardi una macchina fotografica. Negli anni Venti Dietrich espone i suoi primi lavori e poco dopo entra a far parte della prestigiosa galleria di Herbert Tannenbaum, si avvicina quindi alla Neue Sachlickeit - un gruppo di artisti tedeschi che in quegli anni in contrapposizione allo stile espressionista e astratto, creano opere in uno stile realista facendosi portavoce del cinismo e dello spirito di rassegnazione che si respirava in Germania dopo la Prima Guerra Mondiale. Eppure, nonostante la fama e l'indipendenza economica, Dietrich non abbandonerà mai il suo stile di vita modesto e la sua casa di Berlingen. La visione idilliaca che abbiamo oggi della Svizzera deve forse molto ai suoi paesaggi rurali. Sebbene sia stato spesso definito il Rosseau svizzero, di ingenuo e naïf però c'è ben poco di Adolf Dietrich: la qualità della sua pittura risiede tutta nell'osservazione della natura e nella ripetizione, quasi compulsiva dei soggetti. In questo senso può essere considerato un precursore del modernismo, per i suoi dipinti ossessivamente ripetitivi e per lo stile che, sebbene certamente realista, raggiunge un grado di artificialità che lo porta ben oltre la nuda e cruda narrazione dei fatti. Una Natura che si dissolve in un quadro lasciando spazio solo alla rappresentazione della realtà al di là di qualsiasi limite temporale. E allora: "bada bene al contenuto e non alla cornice".










domenica 8 gennaio 2012

The End - fin de l'histoire

Il successo di un film dipende dai suoi ultimi 20 minuti. Il film è il suo finale. Perché? Perché il finale di un film dà la risposta alla vita di un uomo che ti è stata raccontata fino a quel momento. E noi vogliamo sapere in anticipo se e come una vita vale la pena di essere vissuta. E siccome non possiamo farlo con la nostra vita, perché la stiamo vivendo, cerchiamo di fare l’esperimento con le vite degli altri. E le vite degli altri sono spesso quelle dei personaggi dei romanzi e dei film. Insomma le storie ben raccontate dimostrano l’esistenza dell’aldilà: il personaggio ha cambiato sé e il mondo e gli effetti sono irreversibili, nel bene e nel male.
Massimo l’ispanico muore ma si ricongiunge con la moglie e il figlio, Wallace viene torturato a morte ma la Scozia è libera, Julianne non riesce a riconquistare l’ex fidanzato ostacolandone il matrimonio, ma ha imparato cosa vuol dire amare (Il matrimonio del mio miglior amico), Guido muore ma il figlio e la moglie sono salvi (La vita è bella), Truman scopre la verità ed esce dallo show televisivo, Rose ritorna sui luoghi del suo metaforico matrimonio con Jack (Titanic), Michael diventa il nuovo Padrino ma a prezzo della sua innocenza iniziale, Riccardo III ha ottenuto il potere eliminando tutti i rivali, ma alla fine darebbe il suo regno per un solo cavallo, Anna Karenina ha tradito il marito ma si è ritrovata più sola di prima…Fatto sta che nel finale di un film o di un romanzo, il personaggio riceve ciò che si è meritato – nel bene e nel male – con la sua vita. E i film più amati sono proprio quelli che rendono visibile questo “premio”, di dannazione o redenzione che sia. Il finale di un film è l’aldilà reso visibile nell’aldiquà: il senso di una vita intera spesa per qualcosa.
Tutti vorremmo conoscere il finale della nostra vita. Il suo consuntivo: è valsa o non è valsa la pena? E cerchiamo risposte nelle vite dei personaggi con i quali ci identifichiamo.






































































venerdì 6 gennaio 2012

Cooper & Gorfer - mon or le silence

Un paese che dista dal mare più di qualunque altro al mondo, arroccato su montagne che gli sono valse la nomea di "Svizzera asiatica" (ahimé senza i caveaux). Un nome quasi impronunciabile, che appare sui quotidiani associato a rivoluzioni o tristi primati: è 13simo nel Corruption Percepition Index. Difficile che qualcuno si innamori del Kirghizistan. Eppure per anni le fotografe Sarah Cooper e Nina Gorfer, alias Studio Seek, hanno sognato di raccontare l'anima di questa instabile e impervia ex provincia sovietica con il loro obiettivo. Dimenticate però i reportage documentaristici. Il lavoro di Studio Seek, oggi raccolto nel libro My Quiet of Gold, è infatti una raccolta di storie narrate attraverso sofisticatissime immagini e testi ispirati alla tradizione orale kirghistana. In cui l’artificio diventa, quasi paradossalmente, il mezzo per raccontare la vera essenza di una cultura. Dalla voglia di catturare qualcosa che si sta perdendo all’esperienza del viaggio come strumento di conoscenza delle culture lontane, fatta attraverso le persone e i loro racconti in un' epoca in cui viviamo dove ci pare di aver visto e fatto tutto, ma la maggior parte di noi esplora il mondo con il mouse, seduto in poltrona. Ed è per questo motivo che voglio immergervi nel mondo Sarah e Nina, un mondo raccontato attraverso immagini che sembrano dipinti, un mondo legato alla tradizione della fotografia analogica del passato, l’artificialità della situazione, la novità del mezzo e l’eccitazione di farsi immortalare: la fotografia. E allora bon voyage in questo viaggio storico senza conformismo e senza mai dire una parola.

 


 






giovedì 1 dicembre 2011

Polly Morgan - Taxidermie: stupéfaction, étonnement ou scandale?

Perchè in tutte le cose c'è un inizio e una fine? E soprattutto, perchè la fine ha sempre una strana somiglianza con l'inizio? E' come se la natura si preoccupasse di voler terminare ogni volta un ciclo, in cui però la fine non è esattamente identica all'inizio. Si, la natura, l'insieme di esseri viventi e inanimati nella sua forma complessiva, e si sa, tra gli esseri viventi non siamo gli unici a farne parte, perchè dove voglio condurvi è nel mondo animale e alla "Tassidermia". Tra fringuelli morti, piume, peli e bottiglie di soluzioni, arriva "Polly Morgan". Nel suo mondo apparentemente sordido, dove la morte può essere bella e la tassidermia è una forma d'arte, Polly è una vera maestra nel metodo di imbalsamazione delle sue opere, che modella per farle divenire una vera e propria meraviglia dell'arte moderna. Morgan non vede gli animali con cui lavora come creature che un tempo hanno vissuto e respirato, ma li vede esattamente nello stesso modo in cui un pittore guarda la vernice, come materie prime il cui unico uso è per la costruzione dell'artista. La carriera della bella bionda di East London è stata fortuita. Dal suo mondo immaginario di tassidermia fai da te, Polly inizia a prendere lezioni da un professionista in questione "George Jamieson", ma la grande occasione avviene allo "Zoo Art Fair" quando il suo primo pezzo, un topo bianco raggomitolato e la pelliccia traboccante da un bicchiere di champagne, viene venduto prima che la fiera d'arte aprisse. Dall'esperienza nello zoo il pubblico comincia ad interessarsi, ma è anche me che riesce ad ammaliare con uno dei suoi ultimi lavori: "Psychopomps". Una mostra dove Morgan si ricollega alle creature che nelle tradizioni religiose e mitologiche trasportano le anime nell'aldilà (Hermes e Caronte, le Valchirie) immaginandoseli come macchine volanti costituite da gabbie toraciche umane che proteggono degli uccelli rossi tenuti in sospensione da palloncini. "Psychopomps" è questo, creature  riassemblate in una distorsione della natura, come se drogate da un sogno, pronti a viaggiare in qualche luogo lontano dove gli ibridi evocano da un lato, la natura metaforica di questi conduttori d'anima, e dall'altro, le tradizioni della tassidermia e il suo tentativo di rinvigorire i corpi di animali morti. Topi in bicchieri di champagne, pulcini imbrigliati pronti a scoppiare palloncini, dalle cuciture di bare o auricolari di una cornetta telefonica....Per la prima volta il corpo umano è stato implicato in questo gioco macabro e nelle ali di corpi animali 'che non sono più riconoscibili dalla vita. E allora, stupore, meraviglia o scandalo?












martedì 11 ottobre 2011

Aurel Schmidt - L'appel de la Nature

Viviamo in un mondo in cui tutto è sotto controllo. Puoi comprare pillole per l'umore, se è inverno puoi stare al caldo, se è estate hai l'aria condizionata, fai sesso ma non rimani incinta, puoi controllare quasi tutto. In una società artificiale dove anche l'ambientalismo è un trend, mi viene in mente Aurel Schmidt. L'artista che trasfigura una realtà secondo principi e ideali. Lei dalle idee archetipiche, stregoneria e rituali, che come Dash Snow e altri artisti della sua generazione, usa fluidi corporei: "Utilizzo il sangue nelle mie opere, quindi potrei tagliarmi un dito, ma non vedo perchè visto che ho le mestruazioni una volta al mese...è solo una maniera indolore e agile per procurarmi quel che mi serve". Una pratica dal sapore gotico. Nata a Kamloops, zona rurale della British Columbia, parte per Vancouver finita la scuola superiore, dove divide casa con un gruppo di studenti d'arte a cui ruba letture e idee, formandosi così da autodidatta alla cultura artistica. Nella Grande Mela, dopo aver fatto un po' di tutto per guadagnarsi da vivere, comincia a esporre grazie a Tim Barber e, in seguito, Kathy Grayson di Deitch Projects. Il collezionista greco Dakis Joannou vuole subito due disegni. Da allora, mentre Aurel prende contatti con la città, è un susseguirsi di eventi fino alla Biennale del Whitney 2010 dove crea disegni e dipinti intricati che fondono parti anatomiche ad animali e spazzatura. "Prendi una cotta, t'innamori, poi rimani deluso, amareggiato, arriva il momento in cui ci si lascia, ti ritrovi depresso e solo...forse  meglio metterci un insetto sopra fin dall'inizio". Prendi Auriel Schmidt.










martedì 30 agosto 2011

Helmut Lang - le soft / le solide

"Make it Hard". E' proprio questa parola che ha recepito il mio nervo ottico. Tuttavia tutti questi input/output mi  hanno portata all'elaborazione di questo dato e condotta fino a lui "Helmut Lang", il designer austriaco famoso per i suoi tagli netti, la tavolozza dei colori spesso monocromatiche e definito gli anni '90 con la sua estetica minimale. Dopo il ritiro dalle scene della moda, ora, a quanto pare, ancora una volta la mente dell'artista torna di nuovo a colpire il nostro apparato visivo, ma non attraverso la terapia al dettaglio come siamo abituati, ma nella sua ultima mostra personale d'arte, per l'appunto "Make it Hard", (il passaggio dal morbido al solido che lui stesso definisce), esposto al Fireplace Project a Hamptons fuori New York. Lang ha tagliuzzato il suo intero archivio dopo aver donato il resto delle sue opere raccolte per collezioni d'arte in tutto il mondo della moda e del design contemporaneo, per fare 16 sculture sartoriali. Mescolando la propria storia, quella del suo passato di designer e questa forma d'arte relativamente nuova, rende la mostra fondamentalmente interessante per gli appassionati di Helmut Lang, sia come artista, sia come designer.